Elogio dell’errore

15 Luglio 2019by Elisa Renaldin

Definizione di “errore”

Viene considerato un soggetto in cui non incappare, tutti cercano di evitarlo, si dice malissimo di lui e ci si paralizza nell’inerzia piuttosto che avere a che fare con lui. E’ oggetto di pregiudizi e maldicenze, e chi ha fatto amicizia con lui è a sua volta oggetto di critiche molto aspre. Eccolo, signore e signori, vi presento l’Errore. Se andiamo a consultare il vocabolario della lingua italiana, troveremo degli spunti interessanti. Il primo significato di “errore” è inteso come “l’abbandono della verità (logica o etica) provocato da un fraintendimento o travisamento di valori”. Solo dopo appare la definizione “infrazione nei confronti di una regola o di una consuetudine”, mentre nel diritto civile, l’errore è la “falsa rappresentazione della realtà che incide sulla corretta formazione della volontà”. Anche in filosofia, si riferisce a qualcosa di falso che appare vero nel campo a cui si riferisce il giudizio o la valutazione, mentre nel diritto romano era una divergenza tra manifestazione della volontà e la volontà stessa, tra il voluto e il dichiarato.
Capiamo quindi che i significati sono molteplici, e dietro la parola ‘errore’ si nasconde un mondo ben più vasto. Il punto è che siamo stati abituati ad associare a questa parola un significato negativo, perfino diabolico (nel senso di ‘deviazione morale’), perdendo invece l’accezione ben più leggera della sua origine dal latino, ovvero: error-oris, der. di errare, ‘vagare qua e là’.
Il timore di incappare in un errore ha una tale forza che molto spesso impedisce di prendere decisioni e agire, anche quando l’azione è l’unica scelta disponibile, magari in situazioni in cui non è più possibile rimandare, o restare immobili nell’attesa. Ci è stato inculcato talmente a fondo nella mente che l’errore, poi, genera una punizione – umana o divina – che in qualche modo, pur di evitare quel danno, siamo disposti a sopportarne un altro spesso più grave, che deriva dal non agire.


Come uscirne?

Per uscire da un cunicolo percettivo, che deforma l’interpretazione della realtà, bisogna iniziare con la sostituzione di una percezione con un’altra, modificando quello che per noi rappresenta la parola “errore”. In nostro soccorso giunge il famoso detto “sbagliando s’impara”, ed è proprio su questo che porremo l’accento. Non si tratta di mettersi a fare disastri in ogni campo della nostra vita, ma percepire che lo sbaglio, il tanto temuto errore, è fonte preziosissima d’informazioni e d’insegnamento. Se non facessimo errori, vorrebbe dire che non attueremmo mai nessuna azione. Errare è umano, come ci ricordano i saggi. E’ perseverare intenzionalmente e ostinatamente nello stesso errore, che non ci darà grandi risultati. Ma se non ci decidiamo ad agire, correndo il rischio di fare un errore, rischiamo di restare impantanati per lungo tempo, permanendo in condizioni insoddisfacenti che generano frustrazione e insoddisfazione. A quanti di noi è successo? A tutti quanti, io credo. La paura di sbagliare è un freno e un limite che spezza la volontà e affievolisce la determinazione, per il timore di conseguenze irreparabili. Ma, se ci pensiamo bene, a paralizzarci è il nostro timore delle conseguenze irreparabili, non certo l’azione che potrebbe comportare un ipotetico errore. Facciamoci anche un’altra domanda: quanto abbiamo imparato dagli errori? Tantissimo. Da questo punto di vista, potremmo considerarli dei grandi maestri? Certamente sì. E allora perché li temiamo? Perché la nostra mente ha ormai una percezione distorta delle conseguenze dell’errore, che il più delle volte vengono accentuate e aggravate dal giudizio altrui. Ma se proviamo a considerarci Anime in cammino, più che umani fallaci, vedremo che attraverso le azioni anche cosiddette errate, l’Anima impara e si evolve, non mette etichette, non esprime giudizi invalidanti, non si autocensura, semplicemente esperisce e impara. Senza certe scelte non avremmo mai capito, visto e appreso. Errare, nel suo significato più puro, è “vagare qua e là”, ovvero fare esperienza. Se chiamassimo gli errori semplicemente “risultati”, l’impatto psicologico su di noi sarebbe molto meno forte, e la libertà di azione che ci concederemmo sarebbe molto più ampia. Ci dobbiamo per forza spostare “qua e là”, dobbiamo necessariamente muoverci, agire, sperimentare, prendere decisioni, intraprendere percorsi. Sono sempre tutti giusti al primo colpo? No, semplicemente perché non siamo perfettamente connessi con la nostra anima, perciò decidiamo e valutiamo sulla base del raziocinio e delle sue dighe contenitive, dei suoi recinti limitanti, dei suoi schemi di riferimento estremamente ridotti. Ed è in quei casi, che prendiamo abbagli. L’anima dice chiaramente “no”, e noi magari cerchiamo giustificazioni per la nostra scelta, che sappiamo già essere sbagliata. Oppure l’anima urla “si”, e noi cominciamo a negare il nostro bisogno di espansione, ci limitiamo, ci castriamo, e alla fine ci impediamo di intraprendere un percorso che sentiamo giusto, ma giudichiamo sbagliato, pericoloso, inopportuno. Ecco, come avvengono gli sbagli: per una mancata connessione con la nostra parte più profonda (che, attenzione, si esprime non attraverso l’istinto, ma tramite l’intuito).

Sono davvero errori?

Altre volte, quelli che appaiono inizialmente come errori, sono in realtà delle benedizioni, nel senso che a posteriori si rivelano effettivamente utili, giusti, perfino provvidenziali. A volte non ottenere ciò che si desidera è un gran colpo di fortuna, diceva non so più quale autore. Altre volte, invece, seguire il corso degli imprevisti, porta esattamente dove dovevamo andare, e non avremmo mai potuto arrivarci se non tramite certe deviazioni. Quindi la sostanza sta tutta nel non etichettare come errata ogni singola cosa che non quadra subito, né giudicarci per le scelte del passato che non ci hanno portato al risultato desiderato. Molte volte si tratta solo di reinterpretare la storia e concederci delle varianti nel nostro schema interpretativo, e capire che ampliando la comprensione dei fatti, alcune rivelazioni possono giungere ai nostri occhi. Iniziamo a chiamare gli “errori” risultati, e concediamoci di esplorare nuovamente le opportunità della vita, senza l’ansia di sbagliare ancora e senza prevedere terribili conseguenze. In fondo anche i bambini, prima di imparare ad andare in bici, cadono e si fanno male. Prima di imparare a svolgere bene un compito, si fanno molti errori. Prima di imparare a cucinare bene un certo piatto, idem. Spesso si scelgono partner non adatti, si scelgono lavori che non soddisfano, si acquistano oggetti che non servono. E allora? Tutto ci aiuta nella scoperta e nella comprensione di noi stessi. Tutto serve a mettere a fuoco, a prendere la mira, a tirare la freccia con più precisione. C’è una definizione di “peccato” che ha proprio a che fare con il mancare il bersaglio. Perfino il peccato, si può ridurre a un mancato centro e nulla più. Ridimensioniamo il peso della parola “errore”, percepiamolo come risultato, come il nostro “vagare qua e là” in cerca di risposte, e ricominciamo a prenderci qualche piccolo rischio, esplorando nuovamente la vita e le sue opportunità. Diversamente, resteremo fermi e stagnanti, per paura di sbagliare; resteremo immobili a calcificarci dentro, resteremo in disparte sentendo anche i timori per cose inesistenti. Resteremo ai margini, sui bordi della vita. E sarà quello, il vero errore che potremo mai fare: non agire per paura di fare errori. Ma se errare è vagare qua e là, allora è come dire che non ci muoviamo per paura di muoverci!

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Elisa Renaldin

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